Una vita errabonda, chiusa a trentatre anni con il ricovero in manicomio, ha fatto di Dino Campana (1885-1932) un maudit, il Rimbaud italiano, un caso clinico da affidare all’aneddotica. Autore di un solo libro, i “Canti Orfici” (1914), pur affondando le proprie radici nella cultura europea, quella simbolista in particolare, il “poeta pazzo” ha in realtà caratteri propri che lo rendono difficilmente collocabile in una linea o in una tradizione. Quella del “visionario”, forse la figura più inquietante del nostro Novecento letterario, è una scrittura orfica (cioè misteriosa, oscura, per iniziati) scaturita da una vena ben consapevole della “purità di accento” che la percorre.