Un raccapricciante delitto scuote la sonnolenta provincia americana. In una anonima cittadina di un piccolo stato dell’Ovest una coppia viene trovata morta, uccisa da nove serpenti a sonagli drogati con anfetamine. È l’inizio di una sequenza di efferati omicidi accomunati da un macabro copione: il killer prima di colpire spedisce un avvertimento alla vittima, una piccola bara di legno intagliata a mano che racchiude all’interno una fotografia. Pubblicato nel 1980 in quella «smagliante autoantologia» che è “Musica per camaleonti”, “Bare intagliate a mano” è stato a lungo considerato, complice un sottotitolo che recita «cronaca vera di un delitto americano», solo un remake di “A sangue freddo”, il capolavoro con cui Capote ha inventato il genere del romanzo-verità. Ma in questo racconto c’è più finzione che reportage. Prendendo spunto da vecchie conversazioni con Alvin Dewey, l’investigatore incaricato del caso Clutter in “A sangue freddo” che gli aveva parlato di strani omicidi avvenuti in Nebraska, Capote costruisce un raffinato congegno narrativo in cui echi di cronaca nera si intrecciano a ricordi angosciosi dell’infanzia trasfigurati da un’esuberante immaginazione creativa: è «un distillato di tutto quello che so sulla scrittura: scrittura di racconti, sceneggiatura cinematografica, giornalismo» dirà lo stesso autore. Ricco di tensione come un thriller, incalzante come una detective story, “Bare intagliate a mano” è anche un desolato apologo sul Male e le sue epifanie, lo specchio di un mondo dove gli assassini si credono Dio e gli uomini sono feroci predatori.