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Racconti - 16 Gennaio 2025

Una bestia enorme, enorme, ti dico. Barky e Billy #1

Prologo

La prima volta che vide Billy, Barky aveva tre mesi e mezzo e i suoi familiari, quando rompeva qualcosa, gli davano ancora i baci sul pancino e lo chiamavano “polpettina”. Era un pomeriggio di marzo con tanto sole che entrava abbondante dalle finestre, Lidia era stesa a piedi nudi sul divano con un libro di Teoria della Comunicazione davanti al viso, Annagrazia stava riposando, Attilio era al lavoro e Luca, saltellando davanti alla TV, incitava un wrestler messicano come se stesse assistendo all’incontro dal vivo.

Da sopra il tappeto Barky udì di nuovo quel suono, un sibilo nell’aria seguito da un rumore metallico molleggiante; qualcosa di elastico e ferroso al contempo. Determinato a capire di cosa si trattasse, lasciò il tappeto e raggiunse il giardino sfruttando la porta socchiusa della cucina. Il rumore sembrava provenire dal cortile della casa a fianco, oltre il muretto schermato da siepi di viburno che divideva la sua villetta da quella del vicino. Barky fiutò per il prato in cerca di odori chiarificatori ma proprio in quel momento giunse di nuovo quel suono: swuooong… ra-ta-ta-tà.

Alzò il muso ma oltre il muro vide solo un pezzo di cielo con due nuvole bianche. Costeggiò la barriera col naso appiccicato al terreno e s’impennò un paio di volte, annaspando con le zampe anteriori verso l’alto, ma era ancora piccolo, il bordo del muro era lontano tre barky da lui. Poi di nuovo il rumore, uno swuooong elastico e un ra-ta-ta-tà metallico e un cane marroncino che ascendeva in verticale, oltre il muro e le punte dei viburni, e per un attimo si fermava nel cielo con le orecchie che si sparavano all’insù mentre iniziava a ricadere – un meticcio con gli occhi birbanti e il pelo incrostato di fango che scompariva oltre il muro e poco dopo: swuooong… ra-ta-tà, ricompariva librandosi in alto con le zampe rigide e l’aria che gli gonfiava le guance.

«Ehi, fratello» disse tra un rimbalzo e l’altro. «Sei nuovo di queste parti?»

I.
La mattina del 26 aprile 2017, il giorno in cui Barky incontrò la sua prima nemesi, Attilio, il padre di famiglia, colui che stando all’anagrafe canina era ufficialmente il suo padrone, vagava per Collemerlo con una cartelletta targata Tecnocasa in mano, Annagrazia era a scuola, intenta a riportare dei concetti kantiani sulla lavagna, Lidia avrebbe dovuto essere in un’aula universitaria a Roma ma non era lì, né ci sembra opportuno dire dove fosse o con chi, e in tutto questo Barky, sul divano di casa, stava masticando una statuetta di legno che Luca aveva fatto cadere poco prima.

All’età di sei mesi, con le orecchie triangolari fresche di raddrizzamento, Barky si presentava come un cane bicolore, la metà inferiore con il pelo giallo e quella superiore con il pelo nero, fatta eccezione per una striscetta dorata in mezzo alla fronte. Quella mattina Luca si era finto malato e, come sempre in quei casi, aveva mangiato schifezze (un panino con Filadelfia, ketchup e Nutella) e aveva rotto alcuni oggetti agitandone altri come fossero spade, il tutto intervallato da scatti lungo il corridoio con Barky che lo inseguiva e ogni tanto gli mordicchiava il calcagno mentre lui rideva e si rotolava per terra.

Quando abbandonò la statuetta per avvicinarsi al bambino, seduto davanti alla TV con un indice fermo tra i capelli, che arrotolava spesso per vezzo, Barky si accorse che si era addormentato con la bocca aperta e le labbra sporche di salsa. Condizione ideale per tornare in giardino anche se le porte erano chiuse. Barky scivolò sulle piastrelle lisce del bagno, poi saltò sulla lavatrice e infine evase dalla finestrella.

Il giardino della villetta dei Fusaro, in tutto simile alle altre villette del quartiere, ma facile da distinguere per la facciata giallo limone e la porta rosa, conteneva un mandorlo, qualche cespuglio e una catasta di legna, oltre alla bordura di viburni. Barky lo attraversò e dopo aver premuto il pulsante di apertura del cancello zampettò lungo il marciapiede e si affacciò nel giardino del vicino.

Sotto un albero di mandarini vide il suo migliore amico che leccava una lattina di birra. Billy era considerato dagli altri cani del paese come un essere trasandato, leggermente sovrappeso e con un alito orribile. Barky lo trovava ingiusto, anche se la descrizione era molto vicina alla realtà. Molte delle attività preferite di Billy comportavano lo sporcarsi: il passare ore per terra a stiracchiarsi a occhi chiusi (a sentir lui cosa ben diversa dal dormire), gli scavi in cerca di ossa, avanzi o insetti commestibili, le rotolate gratta-schiena, la distruzione dei sacchi della spazzatura, le immersioni nei bidoni…

«Lo senti il profumo?» disse Barky riferendosi al sentore della magnifica levriera che avevano intravisto il giorno prima.

«Quale profumo?» chiese Billy, che a causa dell’olezzo da lui stesso emanato, aveva scarsissime capacità olfattive. Barky sospirò e tornò sulla strada, certo che Billy l’avrebbe seguito.

Mentre trotterellava sul marciapiede badava poco a ciò che stava dicendo l’amico; immaginava di vedere la levriera apparire all’orizzonte, fantasticava di avvicinarla baldanzoso, di correre con lei lungo i viali di Collemerlo per poi scambiarsi gesti carini, gesti simpatici, gesti galanti, ritraendosi infine in un luogo appartato (perché Barky qualcosa voleva combinare, anche se non sapeva bene cosa).

«Ehi!»

Il muso di Billy si presentò distorto da un filtro immaginifico, uno strato d’acqua purissima ma tinta di rosa, poi mentre il meticcio diceva «Torna con me, fratello» il filtro divenne traslucido e infine scomparve. «Queste sono le zone di Sansone» spiegò.

«Le zone sono di tutti» rispose lui.

«Guarda che Sansone si arrabbia» insisté Billy. «Ed è una bestia enorme, enorme, ti dico».

«Arrabbiarsi?» disse Barky. «E perché? Abbiamo tutto il diritto di passare da qui».

Dopo pochi minuti la levriera di cui Barky aveva confusamente sognato la notte precedente apparve tra due automobili parcheggiate: aveva peli lunghi e leggiadri che sfioravano il terreno, un profilo di classe, un contorno di luce attorno al pelo. Era lunga, questo Barky poteva dire sopra ogni cosa: era lunga.

«Guardatemi» disse Billy atteggiandosi a cane di classe, «sono tanto magra, faccio la cacca dal naso io, mica come voi». Poi si irrigidì fissando qualcosa alle spalle di Barky.

Barky assunse l’espressione scettica di chi non crede a una presunta minaccia dietro di sé, ma appena vide Sansone con la coda dell’occhio scattò indietro di un metro.

«Volevo fare tante cose nella vita!» protestò Billy, «capire come esalare fumo dalla bocca come gli umani, assaporare la carne della signora Germana – quella che la signora cucina, s’intende – e dormire, volevo dormire così tanto nei prossimi anni! Nel caso dovesse acchiapparci, Barky, voglio che tu lo sappia: è tutta colpa tua».

Sebbene a prima vista sorgesse qualche dubbio, Sansone era un cane, un cane rivestito da un pelo grigio metallizzato che lanciava barbagli quando colpito dal sole, un cane alto quanto due cani e largo il doppio di Barky, con colline di muscoli sulle spalle e piccole orecchie rotonde sul testone quadrato, che ruotavano senza sosta per captare i nemici.

Si capiva subito che non aveva il senso dell’umorismo.

«Mai giudicare dalle apparenze» disse Barky.

«Filiamo!»

«Calma» ribadì lui alzando una zampa. «Basterà dimostrare rispetto ed essere gentili».

Sansone iniziò a ringhiare e sollevò le labbra scoprendo un guazzabuglio di denti lunghi e storti. Il suo alito gli colpì il volto come un refolo di vento da una caverna. «È solo nervoso» aggiunse Barky, ma quando si voltò in cerca di conferme Billy era già distante, con le zampe trasformate in ruote frullanti e il grido «Ritirata» che si allontanava con lui.

La levriera tutta allungata era immobile sulla strada e lo guardava. Barky guardava lei e poi Sansone. Sansone partì talmente forte che per un momento le zampe mulinarono a vuoto e lui rimase immobile con lo sguardo minaccioso puntato su Barky; poi le zampe fecero presa e schizzò avanti.

L’istinto di sopravvivenza scacciò l’ottimismo di Barky, spingendolo alla fuga. Per i primi metri si limitò a corricchiare come se volesse indietreggiare con dignità, ma quando vide i denti di Sansone vicini al suo posteriore si risvegliò in lui qualcosa di antico: accelerò così tanto che davanti gli apparve un cerchio di punti luminosi, l’illusione di un portale tra le stelle, forse, e mentre ciò che lo circondava sembrava sfumare all’indietro, Barky si ritrovò a casa prima ancora di accorgersene.

Riprese fiato con il respiro che svampiva in piccoli fischi.

«Questa sì che è una ritirata» approvò Billy dal suo giardino. «C’è mancato poco, eh?»

Barky si avvicinò con la coda tra le cosce.

«Non è giusto».

«Sai che amo i guai» disse Billy, «ma in certi casi si scappa e si cova rancore. Ripeti con me: si scappa e si cova rancore».

«Oh, falla finita, non è per niente divertente».

«È una faccenda seria, infatti. Sono più grande di te, faresti bene ad ascoltarmi».

«Abbiamo la stessa età, Billy, e se non fosse per me saresti ancora prigioniero della vicina».

Billy voltò il muso sprezzante.

«Avrei dovuto mostrargli subito la pancia» rifletté Barky, «così non mi avrebbe caricato».

«Ti avrebbe attaccato lo stesso» ribadì l’amico; ma Barky dichiarò che sarebbe tornato da Sansone per risolvere il malinteso, perché, vedete, è sempre stato un tipo caparbio il nostro Barky, e del tutto ignaro dei propri limiti.

«Guarda che io resto qua!» strillò Billy mentre si allontanava.

«Sono in grado di gestire la situazione da solo» rispose lui.

Il primo approccio non era stato dei migliori, ma disponendosi a pancia all’aria Barky avrebbe costretto Sansone ad accettare la sua presenza, recuperando la possibilità di avvicinare la levriera.

“È il modo più logico di risolvere il problema”, si disse accelerando il passo.

Gli bastarono pochi minuti per tornare sulle sue orme e vedere la culturistica silhouette di Sansone in cima alla scalinata che conduceva alla chiesa.

Il gigante, che più che un cane sembrava la statua di un cane, ruotò le orecchie e si avvicinò al piccolo trotto; Barky stavolta tenne fede ai suoi propositi: scodinzolò ossequioso e si adagiò sull’asfalto mostrando il petto coperto di peli dorati; pensò che tutto sarebbe andato bene, come era in uso tra i cani che sapevano comportarsi, ma poi Sansone iniziò a ringhiare – ed era una massa di muscoli con una testa abbozzata a colpi di scalpello e gli occhi neri, senza luce.

“Non oserà”, si ripeté. “Sta’ calmo”, al che Sansone lo morse sul collo, e mentre lui sbatteva le palpebre confuso, con una rotazione da discobolo lo proiettò lontano.

Barky fendette l’aria come un sacco lanciato da un magazziniere e ricadde colpito dal totale spregio dell’etichetta dimostrato da Sansone, ma anche dall’asfalto, soprattutto dall’asfalto, e si storse una caviglia continuando a rotolare, e vide altri cani accorrere per assistere alla zuffa, una serie di figure che a causa delle rotolate apparivano normali e poi a testa in giù, normali e poi a testa in giù.

«Poppante di un bastardino! Prendi questo!» disse Sansone piombando su di lui, ficcandogli una zampa in bocca.

«E questo!» continuò atterrandogli con entrambe le zampe anteriori sulla testa.

Su e giù, su e giù con tutto il suo peso.

«Bafta cazzotti!» insorse un bulldog ipersalivante tra gli spettatori. «Bafta! Pietà».

Barky era stordito, e più simile a un tappeto di quanto un cane dovrebbe mai essere. Aveva un occhio chiuso dal gonfiore ma con l’altro vide, in fondo alla strada, la sagoma di un meticcio marroncino che si avvicinava.

“Torna a casa”, pensò tra una botta e l’altra.

«Lascia stare il mio amico!» gridò Billy con i pochi peli puliti che ondeggiavano al vento.

«No» rispose Sansone dando un altro doppio pugno sulla testa di Barky. A quel punto l’amico, che a sangue freddo era bravo a calcolare cosa li conveniva, ma talvolta si infiammava e perdeva la testa, chiamò Sansone “figlio di una cavalla” e lo caricò, pronto a finire in mille pezzi.

Una Panda inchiodò nello slargo un attimo prima che i due potessero scontrarsi.

Barky conosceva bene quell’auto. Annagrazia scese dal sedile brandendo un manuale di filosofia col quale colpì Sansone in piena guancia.

Camiciola a pois, occhiali spessi e capelli cotonati, «Delinquente!» urlò assestandogli un’altra botta sul capo.

Dopo aver lanciato il volume in macchina, la padrona avvicinò le braccia al collo della bestia. Sansone era talmente sorpreso che non riusciva a reagire. Nonostante impennandosi fosse più alto di lei, l’insegnante lo scosse forte per il collo gridando «Vedi come si fa, Barky? Vedi?» e mentre lo strozzava le orecchie di Sansone roteavano, le pupille rimbalzavano negli occhi e la lingua ballonzolava su e giù.

Con un sonoro ceffone Annagrazia spedì il cane per terra, quindi aiutò Barky ad alzarsi e lo spinse sul sedile posteriore dell’auto. “Salvato dalla padrona” pensò con una certa vergogna. La Panda riprese a muoversi mentre lui appoggiava la fronte gialla e nera sul finestrino.

Dall’altro lato del vetro, tremante di rabbia, schiumante di furia, Sansone rovesciò il capo e lanciò un urlo mentre gli altri cani, Billy compreso, slittavano con le zampe sull’asfalto e fuggivano in ogni direzione.

II.

Poco dopo lo sportello si aprì e Attilio gli osservò la testa da ogni angolazione.

«Non sei messo così male» lo incoraggiò mentre lo accarezzava, ma poi sussurrò alla moglie: «Siamo sicuri che sia Barky?»

Annagrazia si allontanò dalla Panda espellendo la stizza dal naso, come se avesse già perso abbastanza tempo con quella faccenda.

Barky salutò Attilio con una debole scodinzolata mentre Luca entrava nel suo campo visivo con le mani nei capelli. Dopo averlo accarezzato, il bambino batté il pugno contro il palmo e disse: «Dobbiamo vendicarlo, papà, pensa quanto deve essere stato umiliante» ma Annagrazia lo afferrò per un orecchio.

«Sei rimasto a casa perché questa mattina stavi male, Luca. Eppure a me non sembri malato».

«Oh, mamma!» disse il bambino diventando paonazzo. «Non è questo il momento, Barky sta male!»

«Accompagnalo dal veterinario insieme a tuo padre, allora» sussurrò Annagrazia. «Tanto dovrai tornare a casa, alla fine».

Attilio e Luca si posizionarono sui sedili davanti e dopo un piccolo rombo Barky sentì uno scossone e vide il mondo tornare a scorrere fuori dal finestrino.

Nell’arco di pochi minuti si ritrovò su di un tavolo di metallo davanti a un uomo col camice bianco che gli piegò le ginocchia, gli esaminò le zampe una a una e gli spalancò la bocca mentre Luca diceva: «Dì ah, Barky. Dì: aaahhh…»

Due ore più tardi Barky era sdraiato in giardino a rimuginare sull’accaduto quando Billy gli si avvicinò.

«Come sei conciato!» gli disse, e in effetti Barky sembrava un cane ridotto a una palla di argilla e poi risagomato alla buona.

«Il naso ti funziona? Ci vedi dall’occhio?»

«Avevi ragione» ammise lui, «sei stato un pazzo a venire».

«Una lattina dopo l’altra mi sono convinto… Sansone ha fatto una figuraccia con la signora, dice che finirà di schiacciare la “cacca bicolore” non appena la vede».

«Tornerò da lui appena possibile» rispose.

«Accidenti a quelle botte in testa» disse Billy. «Vedrai che tornerai normale. Devi pensare al meglio».

«Non sono impazzito” protestò lui. “Sansone non rispetta alcuna regola, bisogna fare qualcosa! Sono sicuro che gli altri cani la pensano come me».

«Gli altri lo evitano e basta» disse Billy. «È quello che devi fare anche tu, pregando che ti lasci in pace».

III.

Parole sagge, eppure Barky, dopo una settimana di carezze e grande vicinanza da parte dei padroni, era ancora convinto di doversi confrontare con Sansone, così Billy, irritato dal suo cupo rimuginare, un pomeriggio gli confessò di aver vagato a lungo senza padrone, prima che loro due si conoscessero, e di aver incontrato, nei suoi vagabondaggi, qualcuno in grado di risolvere l’increscioso problema di Sansone che lo voleva ammazzare.

«Cosa stiamo aspettando?» disse Barky. «Andiamo!»

«Ma ti sei guardato in una pozzanghera?» rispose Billy. «Sei pieno di bernoccoli».

Barky si alzò ignorando le parole dell’amico, e seppur malconcio, si diresse verso la strada.

Collemerlo era un paesino dei Colli Albani, con un centro storico medievale a cui seguiva un anello di villone, poi un anello di villette, e infine alcuni magazzini diroccati e qualche fabbrichetta dismessa. Nella zona est, nei pressi dell’Amione, le case costeggiavano il fiume per sfruttare ogni palmo di suolo disponibile. Oltre il corso d’acqua c’era una collina di lecci dal fitto sottobosco, ed era proprio lì che Barky e Billy si stavano dirigendo.

Quando raggiunsero la sponda del fiume, Billy indicò la direzione lungo cui fiancheggiarlo ed entrambi zampettarono osservando l’acqua scorrere lenta, trasportando rametti lungo correnti che risaltavano sul pelo dell’acqua.

«Perché vagabondavi da solo, da cucciolo?» chiese Barky.

Billy continuò a guardare il fiume facendo finta di non sentire.

«Avevi paura della vicina?»

«Piantala con la storia della vicina» rispose lui.

Barky avanzò tra le case consumate dall’umidità e la sponda muschiata del fiume, almeno finché l’amico, guardandosi attorno, non disse che il ponte di tronchi che un tempo aveva attraversato era sparito. Una volta Barky era stato al mare e aveva adorato galleggiare nell’acqua, muovere le zampe e nuotare avendo l’azzurro intorno a sé, così propose di fare un bagno.

«Tanto fa caldo. Ci asciugheremo in un attimo. E poi una lavata ti farebbe bene» disse.

Billy discese la sponda e quando fu davanti alla lastra di vetro verde allungò una zampa e il vetro magicamente la inglobò mentre rifletteva il suo volto esterrefatto.

«Sembra profondo».

«È la prima volta che entri in molta acqua? È bellissimo fare il bagno».

Barky si tuffò in stile Barky: balzo iniziale verso l’alto, zampe anteriori a mo’ di dinosauro, coda alta a pennacchio e sguardo fisso davanti a sé fino all’ultimo momento.

Dopo la panciata stava per dire qualcosa ma l’amico si stava immergendo, così si limitò a girargli intorno per poi raggiungere l’altra sponda.

Nel vedere l’amico riaffiorare Barky pensò di avere le traveggole, ma quando Billy gli chiese perché stava facendo quella faccia, lui capì che era davvero diventato bianco. Il colore naturale di Billy era il bianco, era solo lo sporco a tingerlo di marrone.

«Niente» rispose fingendo di non essere sbalordito. «Dove dobbiamo andare?»

Dopo un’occhiata diffidente l’amico tornò a scalare la collina.

Barky si mantenne a distanza per evitare l’odore di Billy e si divertì a fiutare i profumi che il sottobosco offriva al suo naso, pungenti e spigolosi, ricchi e vellutati, forti e complicati.

Quando gli alberi si diradarono l’amico si fermò e lui alzò lo sguardo: la collina culminava in un cucuzzolo di un metro di diametro, una piattaforma circolare su cui sedeva davanti al sole al tramonto un piccolo cane arancione, con il muso allungato e ferino e gli occhi chiusi, impassibili alla brezza che gli increspava il mantello.

Lì in alto, contornato dal cerchio di luce, sembrava pronto a sprigionare un’energia incontenibile.

Presto Barky si accorse che era vecchio: aveva dei peli grigi, delle screziature sotto gli occhi e dei ciuffi di lunghezza diseguale.

«È piccolo» disse. «Ha le zampe come quelle dei gattini».

Billy lo zittì con uno sguardo. «Maestro» esclamò avvicinandosi, «ti presento il mio amico Barky. Un cane molto più grosso di lui vuole farlo a pezzi».

Il Maestro continuò a meditare con i peli accarezzati dal vento.

«Le cose vanno male per tutti i cani di Collemerlo » continuò Billy. «Questo Sansone del Castello del Mai è fuori controllo, chiunque si trovi a passare dalle sue zone è in pericolo».

Barky girò attorno al maestro per capire perché si mantenesse immobile, guardò l’amico e lui, con il pelo sorprendentemente candido, avanzò indispettito.

«È troppo tempo che mediti, vecchio bacucco. Ti si sono rotte le orecchie?”

Prima che la frase fosse conclusa il Maestro era scomparso. Dal punto in cui si trovava si era sollevata una colonna di terra. Tutto quello che Barky riuscì a percepire fu l’avvolgersi di una striscia sfocata intorno a Billy, che si ritrovò col muso nel terreno e le zampe stese a quattro di bastoni.

Il Maestro era al suo fianco ma dava le spalle ad entrambi, immobile come se non avesse fatto nulla.

«È velocissimo!» sussurrò.

«Così il tuo amico è nei guai…» disse il Maestro. «Se avessi accettato di vivere secondo i miei insegnamenti, Billy, avresti potuto occupartene tu».

Anziché dare in escandescenze, l’amico si rialzò mansueto.

«Aiutalo» rispose iniziando a leccargli il muso mentre il vecchio borbottava ma in fondo in fondo era contento.

IV.

Per un mese Barky era andato ad allenarsi col maestro tutte le mattine. Appena Attilio, Annagrazia e Luca, dopo essersi chiusi nella Panda lo salutavano con una mano, lui si avvicinava al cancello, poggiava una zampa sul pulsante al centro delle sbarre e correva a lanciarsi nel fiume – e quindi ad allenarsi.

E che allenamenti, aveva dovuto affrontare! Più mentali, che fisici, comunque, con un lavoro continuo sulla concentrazione. Ma quella mattina Barky era teso, poiché non sarebbe andato sulla collina, quel giorno. Avrebbe rimesso le cose a posto a Collemerlo Est, quel giorno.

In attesa che il sole salisse a riscaldare il mondo, per scacciare i pensieri Barky lasciò vagare lo sguardo, e inquadrando il tetto della vicina ripensò al suo primo incontro con Billy. All’epoca aveva meno di quattro mesi e benché lo avesse visto balzare sul trampolino non era ancora riuscito a incontrarlo davvero. Barky aveva sonnecchiato in giardino finché lo swuooong… ra-ta-ta-tà del tappeto elastico non lo aveva ridestato. A quel punto si era voltato e aveva visto Billy comparire sulla scala esterna della sua abitazione. Era chiaro che avesse qualcosa in mente, che stesse guadagnando quota di proposito. Da lì, come se nulla fosse, l’incosciente si era lanciato in direzione del trampolino, che doveva essere un buon tre metri più sotto, e un attimo dopo era ricomparso sparato secondo una traiettoria sbilenca: il suo corpo si stava fiondando verso il muro posteriore (dove c’era il giardino di una terza casa) con una parabola a colpo di mortaio.

Quando Billy si accorse che stava per finire oltre il muro – Barky lo vide chiaramente – la sua espressione beata si trasformò in una maschera di pentimento e terrore. Con il corpo irrigidito a mo’ di cadavere di cavallo, il meticcio scomparve alla vista roteando e lanciando una sequela di suoni spiacevoli.

“Per la coda!” pensò lui. Dopo averlo chiamato a lungo, stufo di attendere segni di vita, Barky si dedicò a lanciare in aria dei vasi di plastica. Poi la famiglia ripopolò la casa, lui giocò distrattamente con Luca, ingoiò le leccornie che l’insegnante di filosofia gli propinava di nascosto, e le ore passarono, in un modo o nell’altro.

Solo a pomeriggio inoltrato, dal suo giardino col cancello chiuso, Barky avvertì un lamento attutito da qualche barriera; non un guaito né un grido di dolore, ma il canto di un’anima in pena.

Aveva una gran voglia di fare amicizia con Billy, e il suo supplizio lo colpì nel punto più basso di un cane: il senso dell’onore. Barky tentò di sgusciare attraverso le sbarre del cancello e di scavarci sotto ma c’era cemento dappertutto; il tunnel che aveva scavato verso casa di Billy era stato richiuso dopo che ci era rimasto incastrato col sedere e Attilio aveva dovuto scavargli attorno per tirarlo fuori, così insistette contro il cancello e fu allora che scoprì il bottone per l’apertura elettrica, lo scoprì così, come tante imprese sul nostro pianeta, senza progettualità o grandi riflessioni, insomma a casaccio.

Fuori di casa da solo per la prima volta, Barky costeggiò i muretti fino ad individuare l’abitazione giusta.

Le sbarre del cancello erano distanti l’una dall’altra e dibattendosi riuscì a far passare il sedere dall’altro lato, ritrovandosi in un giardino con dei crisantemi e una casa dalla vernice scrostata. Quando appoggiò le zampe sul davanzale di una finestra per spiare dentro, Barky vide un soggiorno con della carta da parati marrone, un grande quadro di un uomo capelluto con in mano un cuore da cui sprigionava della luce, lo stesso uomo inchiodato a una croce, lumini accesi anche se il sole brillava, un tavolo pieno di rosari, una madonna in plastica ad altezza cane, tozze cassettiere e settimini così brutti che il suo senso estetico fece un capitombolo, e poi uno strano pezzo di mobilio su cui era inginocchiata una vecchia con occhi tendenti a una fissità mistico-contadina, che bisbigliava tenendo per mano una zampa di Billy.

«Avimariapinadegrasia…»

Huiu, huiu, huiiiuuuu, si lamentava Billy.

Il cane sedeva di fianco alla beghina a mo’ di gargolla con qualcosa di nero sulla testa; casualmente si voltò e incrociò il suo sguardo. Una veletta nera a pallini gli copriva il muso, e quelli che si intravedevano dietro il velo erano due occhi che imploravano aiuto. “Salvami!” dicevano, eppure quando Barky vide la sua espressione disperata oltre il velo, gli prese la risarella.

Labbra ritirate e denti in vista, si sganasciava mentre il povero Billy lo guardava temendo che la sua speranza fosse andata in frantumi. Nel frattempo che Barky rideva, gli occhi di Billy iniziarono a fiammeggiare. D’un tratto il meticcio ringhiò e la vecchia si voltò verso la finestra. Barky la vide, lei vide lui. Tolse le zampe dal davanzale e si avvicinò alla porta. Quando la signora uscì esclamando: «Sciò!» Barky si insinuò tra le sue gambe, arrivò in soggiorno perdendo più volte aderenza con le zampe e disse: «Via!».

Billy aveva strappato parte della veletta con i denti. Appena lo vide scattò e insieme imboccarono la porta con tale impeto che la vecchia dovette scostarsi per non essere travolta.

Poi riguadagnarono il marciapiede e tornarono davanti a casa di Billy.

«Che hai da ghignare?» gli chiese l’amico, e Barky vedendolo oltre il cancello, in quel giorno così importante, il giorno del confronto con Sansone, tornò alla realtà.

«Niente» rispose. “Proprio niente”.

Il sole era alto. Il momento era giunto. Barky si alzò e dopo aver premuto il bottone del cancello uscì di casa.

Era una bella mattinata: gli oleandri sui marciapiedi erano carichi di fiori rosa, le nuvole bianche non ostruivano il sole, abbellivano soltanto il cielo. Come al solito nella periferia in cui abitavano non c’era un’automobile in giro; auto parcheggiate sì, ma in movimento mai una. Barky lasciò il marciapiede per camminare nel mezzo della strada ripassando nella mente gli insegnamenti del Maestro.

L’incontro avvenne in una piazza con un’alta colonna al centro, vicina al luogo in cui Sansone lo aveva pestato quaranta giorni prima. Quando il gigante lo adocchiò un ghigno gli si allungò sulla faccia, poi parve gioioso, come chi riceve un regalo a sorpresa. Ululò e un gran numero di cani, compresa la levriera, sopraggiunsero dai vicoli e si fermarono al limitare della piazza.

Barky lo osservò senza paura. Sansone avanzò animato da una tale volontà di violenza che a metà strada fece una deviazione per tirare una zampata a un piccione del tutto estraneo alla vicenda.

«Vi lascio soli» disse a quel punto Billy, indietreggiando.

Mentre Barky attendeva la carica immobile, con le zampe pronte allo scatto, il volto del maestro comparve tra lui e la massa di muscoli in avvicinamento.

È la concentrazione che dà il vantaggio maggiore, registrare i movimenti dell’altro nel vero attimo in cui nascono: il tempo a propria disposizione si dilata, permette a un corpo tutt’uno con lo spirito di disporre a piacimento della situazione.

«Sì, Maestro» sussurrò mentre Sansone sfondava l’immagine illusoria balzandogli addosso con le fauci spalancate e bavose, con i bicipiti che si contraevano, le zampe posteriori che spingevano verso l’alto e i muscoli del collo che scorrevano per portare le zanne verso la sua schiena.

Barky scattò avanti e a lato, mantenendosi chino. Fu uno spostamento minimo ma lo portò sul fianco di Sansone, e prima che lui potesse voltarsi, gli assestò una spallata che lo sbilanciò. Ancora per aria con tanto di labbrone fluttuanti, il colosso annaspò con le zampe e rotolò nella polvere.

«D’ora in poi» disse Barky, «i cani amichevoli potranno circolare liberamente in paese».

«Te la do io la circolazione» tuonò il gigante balzandogli addosso.

Era il doppio di lui, potente ma lento. Barky capiva momento per momento quali spostamenti avrebbe conosciuto il corpo dell’altro e sapeva di poterlo colpire, di lì a un attimo, sotto il muso, nel delicato punto di raccordo tra collo e mascella.

La minima violenza necessaria a far smettere la violenza. Essere decisi, questo è ciò che riduce il male al minimo. Barky doveva mordere nel punto più delicato – lì sotto al muso –, dare una zuccata o piegare la zampa per una ginocchiata, ma tentennò. Lo aveva in pugno ma tentennò.

«Baaarky» stava gridando Billy per incitarlo a combattere mentre Sansone gli stava piombando addosso. Un altro attimo e sarebbe stato perduto, (Essere decisi, avevamo detto! si lamentò la voce del Maestro, e lui, che proprio non riusciva fare del male a qualcuno, pensò: “Non ce la faccio”) ma prima del peggio ecco il barlume, ecco il colpo a sorpresa di Barky! Alzò la zampa destra e passò raso sotto la pancia di Sansone.

Lo aveva oltrepassato e ora era fermo con la zampa alzata e un batuffolo di lanugine tra le unghie.

Sansone tuffò la testa in basso per guardarsi tra le zampe: tre strisce rasate gli solcavano la pancia dove Barky aveva lasciato scorrere le unghie.

«Uuh-hù!» strillò Billy.

Barky lanciò un’occhiata al bestione che avrebbe dovuto impietrirlo, ma era pur sempre un cucciolo mezzo giallo e mezzo nero, e Sansone anziché intimorirsi perse del tutto il controllo: lo attaccò ma Barky scansò a destra. Smanacciò con le zampe per afferrarlo ma strinse solo l’aria, al che Barky iniziò a indietreggiare a zig zag cercando di ritardare il momento in cui avrebbe dovuto stenderlo, e continuò a schivare creando aliti di vento in una direzione e nell’altra.

«Scompare e ricompare!» disse uno degli spettatori.

«Sansone viene dal Castello del Mai, non può sconfiggerlo» strillò un cagnolino.

L’inevitabile accadde quando Barky urtò la colonna della piazza col sedere. Abbassando la testa squadrata, Sansone si lanciò in una capocciata alla massima velocità. Barky attese e lo guardò negli occhi per poi traslare in orizzontale all’ultimo istante, col risultato che Sansone lanciando un terribile suono di ceramica rotta si schiantò di testa contro la colonna restando col sedere in aria per dieci secondi, per poi scivolare sul selciato svuotato di ogni energia, molle come una coperta che viene giù dal letto.

Gli spettatori urlarono, zampettii ovunque, cani che saltavano, cani con gli occhi lucidi che ringraziavano tutti gli ossi, bastardini che si leccavano gli uni gli altri nell’impeto della gioia…

«Morte!» gridarono alcuni. «Morte al prepotente!»

«Morte all’usurpatore violatore dei diritti di libero transito!» strepitò una chihuahua.

«Silenzio!» urlò Billy mentre Barky veniva festeggiato in un turbinio di manti e lingue ruvide. «D’ora in poi» disse salendo sopra il torace di Sansone e appellando la folla con sguardo di ferro, «io e Barky domineremo su queste terre. Potrete continuare a vivere pagando dei tributi ragionevoli».

«Ma che sta dicendo?» chiese un jack russell.

Barky lo tirò per la coda.

«Ma che ti dice il cervello?»

Billy sogghignò e ihihihih uhohoh sembrava trovarlo molto divertente. Avvicinandosi alla testa riversa di Sansone, Barky lo afferrò dietro un orecchio e cominciò a scrollarlo. Scrolla e scrolla – all’iniziò la guancia sbatté contro il selciato – il gigante riaprì gli occhi ma senza riuscire ad alzarsi.

«Sansone è uno di noi» disse mentre la levriera si fermava davanti a lui, inebriandolo con il suo odore. «Aiutiamolo a riprendersi».

«Aiutiamolo!» gli fece eco la levriera, «è ridotto male».

Mentre gli animi si stemperavano, qualche cane di buon cuore si avvicinò a Sansone e con la punta del muso iniziò a smuoverlo con delicatezza, un bastardino si posizionò in modo da fargli ombra e la levriera cominciò a leccargli la guancia per convincerlo a rialzarsi.

«Non c’è bisogno di esagerare» disse Barky, «perché leccarlo così, magari è bene che si riprenda con calma».

Quando si voltò otto cani lo avevano accerchiato e lo guardavano con gratitudine e ammirazione.

«Mi chiamo Barky» disse, «e questo è Billy».

Billy si avvicinò e gli appoggiò una zampa su una spalla: «Io, Billy del Volo del Soffione, proclamo il qui presente Barky, figlio di ignoti, cavaliere e protettore di Collemerlo!»

E giù cani a saltare su Barky e ad ammonticchiarsi uno sull’altro, a gioire e sbraitare.

Quando ne venne fuori si avvicinò a Billy per chiedergli cos’era la storia del Soffione, ma Sansone gli barcollò incontro e con voce rammaricata disse: «Ci vediamo in giro, Barky» e se ne andò mogio mogio caracollante verso la chiesa, accompagnato dalla levriera che lo puntellava quando sbandava e gli leccava il muso amorosa, più amorosa di quanto fosse mai stata nei confronti del gigante.

Barky osservò la scena interdetto. Con la coda dell’occhio si accorse che Billy si stava voltando con una battuta tagliente sulla lingua e…

«Non dire niente» lo anticipò. «Non dire una parola!»

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